mercoledì 25 novembre 2015

Fin che la Barca va...

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Presentiamo quest'oggi un'opera enigmatica di Luis Fuente, pseudonimo artistico del pittore catalano Lluis Cervera Balaguer, esponente di punta del movimento spazialista spagnolo. Uno pseudonimo che riporta immediatamente alla nascita del movimento, poiché non è altro che la traduzione in lingua spagnola del nome del capostipite riconosciuto della corrente a livello europeo: Lucio Fontana.
Come per Fontana, le tele di Fuente, dipinte o meno, portano impresso il segno dei gesti precisi, sicuri dell'artista che, lasciati i pennelli, maneggia lame di rasoio, coltelli e seghe; opere che vanno intese come gesti apertamente provocatori, tesi a scandalizzare il pubblico. Tutto è giocato sulle ombre con cui, specie la luce radente, sottolinea le soluzioni di continuità.
Le opere di Fuente creano imbarazzo, anche per la facilità con cui è possibile riprodurle. Numerosi sono infatti i falsari, ma pochi con un segno altrettanto sicuro e deciso, e qui Luis Fuente (come pure faceva Fontana), per cautelarsi, usa scrivere sul retro di ogni tela frasi insensate, semplice appiglio per una perizia calligrafica.

L'opera in questione lascia veramente attoniti. Vi è la Roma, vi è Roma, i suoi colori, il suo nome, la Lupa, Romolo, Remo, tutti abilmente riprodotti secondo la più moderna sequenza Pannea. Ma Fuente va oltre: sei tagli verticali squarciano la tela, definitivamente, a straziarne la bellezza e ad infrangerne i colori. La mano catalana di Luis sembra quasi interrompere un sogno come "ira funesta" di un moderno Achille... Ma come intendere tutto ciò?

Ancor più enigmatica e insensata appare la frase sul retro della tela:

"Fin che la Barca va..."

lunedì 23 novembre 2015

Come Dio la manda

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L'opera che presentiamo oggi è una moderna xilografia in stile ukiyo-e del giovane pittore Katsufisky Hokusai, pronipote di Katsushika Hokusai (葛飾 北斎), il grande pittore, incisore e poeta giapponese, padre de "La grande onda di Kanagawa" e delle numerose vedute del Monte Fuji, diffuse in ogni angolo del pianeta. Katsufisky Hokusai, sulle tracce del celebre antenato, comincia inevitabilmente a dipingere all'età di 8 anni, dimostrando da subito un talento sconfinato che lo porterà ad esporre nelle più prestigiose gallerie americane ed europee.

Compagno di studi di Hidetoshi Nakata (sono nati a distanza di pochi giorni), giunge in Italia proprio nel momento del suo trasferimento alla A.S.Roma, Hokusai prende casa all'Infernetto e segue tutto il campionato del terzo scudetto proprio grazie ai biglietti omaggio del suo inseparabile amico Hidetoshi. Si fermerà a Roma per ben nove anni, divenendo stilista di punta di una nota casa di carte da parati e decoratore di biglietti da regalo per la catena Rinascente. Durante il soggiorno romano impara l'italiano in modo sorprendente, si abbona in Distinti Sud e prosegue i suoi studi letterari affinando l'arte dell'Haiku, la particolare e breve forma poetica giapponese generalmente composta da tre versi, arte che lo accomuna ancora una volta al celebre Katsushika Hokusai.

I soggetti delle opere di Katsufisky posseggono una ambientazione estremamente moderna pur mantenendo una forma espressiva e una tecnica di base rigorosamente ancorata alla pittura classica giapponese. In chiave romanista merita un discorso a parte la sua serie di xilografie in stile ukiyo-e denominata "Le trasferte". In queste opere l'artista ritrae generalmente se stesso e la propria famiglia inseriti nei contesti tipici degli stadi italiani e accompagna ogni singola immagine con un Haiku.
Tra queste, proprio oggi, all'indomani della trasferta di Bologna funestata da una pioggia incessante, abbiamo scelto "Come Dio la manda" (神が彼女を送るよう), opera nella quale l'artista è ritratto di spalle, assieme alla sua famiglia, in abiti tradizionali, con una predominanza di rossi e gialli, mentre la natura dà il meglio di sé. Tuttavia egli sembra guardare in una diversa direzione rispetto ai suoi cari, con molte probabilità la sua indole di tifoso romanista è catturata da ciò che compare sul tabellone dello stadio, e non deve essere cosa di buon auspicio, vista la disperazione che sembra coglierlo.

L'Haiku in calce recita:

Infuriano gli elementi,
oh, cazzo!
Rocchi

venerdì 20 novembre 2015

L'orribile Terza Maja del Goya


Eccoci giunti a un capitolo che ci rende davvero orgogliosi, la scoperta di un'opera che qualsiasi appassionato d'arte vorrebbe compiere, e lo facciamo uscendo un po' dal nostro ambito artistico, poiché, come vedrete, questo dipinto non ha nulla a che vedere con i colori giallorossi.

Riceviamo e pubblichiamo la mail dal Sig. Gonzalo Jiménez Nieto, magazziniere del Museo del Prado di Madrid, una delle pinacoteche più importanti al mondo, il quale, pur fraintendendo alcune notizie captate in rete dai siti romanisti, ci ha messo a conoscenza di un fatto che oseremmo definire clamoroso, ovvero che, oltre a "La maja desnuda" e a "La maja vestida"  esiste una terza Maja attribuibile Francisco Goya: "La Maja Terribles"; come le prime due, conservata al Museo del Prado, anche se non è mai stata esposta al pubblico.
Vale la pena di riportare i passi salienti della mail, così come pervenuta:

"Queridos amigos,
ve prego d'escusare el mio scarso italiano anche se ho estado nel vostro paìs muchos años, da jovine, proverò a farme entender.
Complimenti par vos grande lavoro de arte, de pintura, de vida, es un sitio espectaculare.

(Omettiamo solo alcuni riferimenti calcistici poco inerenti)
Me gustaría racontarle un'estoria mucho importante a riguardo de la Maja de quel gran pintore de Francisco Goya.
Como ho letto da Google y da sito deportivos romano vos tiene un problema mucho grande con la "terza Maja", un problema de protestas y indignación: anche nosotros, y mucho grande!
Necesita saber che soy magazzeniere de archivo del Museo de Prado en Madrid, dónde está custodite le obras del Maestros Goya y especialmente "La Maja Desnuda" y "La Maja Vestida", obras excelentes, de cui estamos orgullosos.

Ora, aquí està una terza Maja che ninguno ha visto: La Maja Terribles (ho adjuntado una foto).
Es un obras vergonzosa, mucho terribles, nosotros non poteria esporla nel museo, no per nosotros, ma per la fama del Maestros... grigia, horrenda, ni desnuda ni vestida, no tiene nada a veder con la otras, no tiene nada a veder con Madrid y con España.
La Terza Maja tiene el color de la muerte, non el color del Goya.
Está pure mal conservada, arruinada y el Superintendente no entiende facere la restauración de la pintura, repetio, per la fama del Maestros.
Cuando vos ha visto la imagen entenderete.
Esto, solo par espremere la solidaridad de nosotros, ancha se non sabemos como es fatta la terza Maja de Roma.


E' estado un placere,

Gonzalo Jiménez Nieto
ps. Destruyete el Barça! Forza Roma

giovedì 19 novembre 2015

Lo strano caso delle figurine nella Cappella Sistina

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Anche oggi, con riferimento all'opera che andiamo a presentare, dobbiamo ringraziare un nostro lettore, appassionato d'arte, pittore, e soprattutto restauratore di eccellente livello, che tuttavia ci ha chiesto di non essere menzionato per evidenti motivi che capirete in seguito. Il cammino artistico odierno ci porta nientemeno che in Vaticano, nella Cappella Sistina, al cospetto degli affreschi più celebrati al mondo, opera del protagonista assoluto del Rinascimento italiano: Michelangelo Buonarroti. Non siamo qui a descrivere l'artista, universalmente noto, e neanche azzardiamo l'ipotesi di tracciare la magnificenza degli affreschi in questione, valga allo scopo quanto affermato da Johann Wolfgang von Goethe:

«Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un'idea completa di ciò che un uomo è capace di raggiungere

Ebbene, si sappia che l'immagine che ci apprestiamo a esaminare è tratta da una fotografia fatta circolare nel 1994, immediatamente dopo il termine dell'ultimo restauro della volta della Cappella Sistina, iniziato nell'anno 1980. Quest'ultimo periodo di restauro ha provocato stupore presso gli studiosi e gli amanti dell'arte poiché sono stati portati alla luce colori e particolari che la patina scura aveva nascosto per secoli. Dopo questi restauri, è stato dichiarato che "ogni libro su Michelangelo dovrebbe essere riscritto" e, a tal proposito, ricordiamo che tutto il processo dei lavori (ben 14 anni) venne documentato dal fotografo Takashi Okamura per la Nippon Television Network Corporation. E' proprio per questo che quando ci è stata sottoposta questa fotografia siamo ricorsi ad ogni mezzo per saperne di più e, a quanto pare, ne siamo venuti a capo.

Nel 1978 il giovane C.T. (che chiameremo "Carlo" per convenzione) viene inserito, con la qualifica di "responsabile del trattamento delle efflorescenze saline", in seno al team di restauro della Cappella Sistina, questo grazie ai tre anni di stage effettuati presso il Laboratorio Vaticano per il Restauro dei Dipinti; dunque, prende parte già alla fase di sperimentazione preliminare del 1979, propedeutica al restauro vero e proprio. Carlo passerà ben sei anni nella Cappella, quelli necessari alla sua fase di intervento, divenendo parte della numerosa famiglia di professionisti, religiosi e collaboratori più vari che animeranno la vita sotto e sopra i ponteggi presenti in questo scenario unico al mondo. Carlo, è persona simpatica, sempre pronto alla battuta, soprattutto se l'argomento in questione ha a che fare con la Roma, vista la sua costante militanza nel CUCS (Commando Ultrà Curva Sud), e proprio in questo periodo, uno dei suoi interlocutori privilegiati è Don Antonio Remondini, diretto assistente del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, l'Arcivescovo Romeo Panciroli. Don Antonio e il Panciroli, quasi ogni mattina si recano in cappella per rendersi conto del progresso dei lavori e, immancabilmente, finiscono con lo scambiare due chiacchiere con Carlo; ora, si sappia, Don Antonio, oltre ad essere devoto al Cristo, è anche seguace indefesso dell'altra squadra capitolina, anzi, si narra che sia stato confessore di Giorgio Chinaglia, già dall'approdo del ragazzo in seno alla compagine biancoceleste, immaginiamo quindi il livello di accesa ironia raggiunto nelle conversazioni tra lui e Carlo.

Sta di fatto che la stagione calcistica 1982-83 mette a dura prova il buon rapporto stabilitosi tra i due, Carlo passa l'intero periodo cantando a piena voce tra i ponteggi, Don Antonio, alle prese col campionato di serie B, ha i nervi a fior di pelle e ogni mattina è costretto a chiedere ragguagli sullo stato dei lavori a squarciagola, per sovrastare le sonorita di Carlo; inutile dire che il resto della compagnia si gode il siparietto offerto con genuino divertimento. Teniamo pure presente che Don Antonio evita accuratamente di salire sui ponteggi in quanto soffre di vertigini e inoltre, essendo mediamente miope, non può che domandare al diretto interessato notizie sullo stato del restauro. La fine della stagione calcistica è un vero è proprio punto di svolta della vicenda, Carlo, fresco scudettato, è al settimo cielo, raddoppia la causticità dei commenti e il volume del canto, mentre Don Antonio, sia pur felice per la promozione in serie A, è costretto a subire le angherie del giovane romanista, e quando Carlo usufruisce di qualche giorno di ferie per i dovuti festeggiamenti col Commando, mette in pratica la propria vendetta. Don Antonio fa sostituire tutti i teli di protezione dei ponteggi con elementi nuovi: tutto il versante interessato dai lavori appare come uno svavillio di drappi bianchi e azzurri, da cielo a terra, immaginiamo solo per un attimo la faccia di Carlo al rientro dalle ferie... Apparentemente la prende bene, ma per parecchie settimane è cupo in volto e non proferisce parola; ai commenti divertititi dei colleghi si limita a rispondere con una sola unica frase:

"La guera è guera."

Qualcuno racconta che la vendetta del restauratore fu messa in atto in una sola notte, nel'agosto del 1983 (ndr). Tutto diverrà più chiaro la mattina del 1 aprile del 1985, quando - Carlo ha ormai finito il suo compito ed è lontano dal sito dei lavori da circa un anno - nel procedere al restauro di un'altra ala della Cappella, esattamente la zona delle campate vicino alla porta d'ingresso, si esamina lo splendido affresco della "Sibilla Delfica" (Delphica), che fa parte della serie dei Veggenti, collocati su ampi troni architettonici. Come noto alle spalle della veggente, a sinistra, sono ritratti due giovanissimi assistenti, uno che legge un libro e l'altro che lo regge, ebbene: è subito caos! I lavori vengono immediatamente sospesi e la zona viene posta sotto sorveglianza delle guardie svizzere. Gli oltre trenta addetti al restauro vengono interrogati a più riprese. Ma cosa è successo di così grave?

Nell'affresco, sul libro dei piccoli assistenti, compare in bella mostra una doppia pagina dell'Album dei Calciatori Panini 1982-83, quella della A.S.Roma, completa di tutto punto, messa lì ad imperitura memoria di una stagione memorabile, con buona pace di Don Antonio. E il lavoro è davvero apprezzabile, eseguito ad acquerello, in punta di pennello, con una restituzione oltremodo fedele, completa di immagini, nomi, didascalie e fincature, una prova d'artista veramente ragguardevole. Purtroppo (o per fortuna) tutto sparirà dopo circa un anno, quando verrà effettivamente restaurato il dipinto, ma non prima di aver scattato qualche foto ove, si noti, muffe e umidità provenienti dalle copiose fessurazioni, hanno già messo a dura prova l'ottimo lavoro dell'artista romanista. Dunque, non una vera e propria opera d'arte, ma un sicuro attacco d'arte, un atto estremamente pagano nel tempio universale della cristianità. Peccato solo che Don Antonio Remondini sia, anche lui, destinato ad altro in carico da circa sei mesi; morirà poi nel settembre del '87... avrà mai saputo? La risposta ce la fornisce il nostro interlocutore, che proprio presso la Cappella Sistina fu collega di Carlo per qualche anno:

"Sì, sì. Don Antonio poté sincerarsi direttamente della cosa, eccome... quando nel maggio del 1985, su esplicito invito di Joaquín Navarro-Valls, allora direttore della Sala Stampa Vaticana, per un'ultima volta... andò in Cappella."

mercoledì 18 novembre 2015

La tintora di Testaccio


Doverosamente, cominciamo la presentazione di questa opera ringraziando il nostro attento e adorabile lettore Orazio Proietti, il quale, non solo ce l'ha segnalata ma ci ha dato modo di fotografarla per la prima volta in assoluto. Come avrete capito, questo dipinto è totalmente sconosciuto, appartiene infatti al Sig. Artemio Ceccarelli (amico fraterno del Proietti) che lo custodisce nella sua abitazione di Testaccio e non lo ha mai mostrato al pubblico.
Ebbene sì, crediamo l'avrete riconosciuta: siamo davanti a un'opera autentica di Fernando Botero, il grandissimo pittore colombiano, nato a Medellin nel 1932, uno dei maggiori artisti tuttora in vita. Caratteristica della pittura di Botero è l'insolita dilatazione che subiscono i suoi soggetti, che acquistano forme insolite, quasi irreali, tecnica necessaria al magnifico uso dei colori che ha sempre adottato, pratica che lui stesso spiega così: "Un artista è attratto da certi tipi di forme senza saperne il motivo. Prima adotto una posizione per istinto, e solo in un secondo tempo cerco di razionalizzarla o anche di giustificarla", una particolarità innata quindi, che lo ha reso unico all'interno del panorama artistico mondiale.

Abbiamo avuto modo di verificare che all'opera ha dato nome lo stesso artista in forma autografa, nel retro della tela, l'iscrizione cita: "La tintora di Testaccio", titolo che non lascia dubbi sul fatto che sia derivata da circostanze precise a cui lo stesso autore ha voluto dare senso artistico. Il dipinto risale ai primi anni sessanta, con molte probabilità al 1961, allorché Botero si trovava a Roma, invitato a presenziare ad una rassegna su Gustave Doré, il grande incisore francese a cui dobbiamo l'illustrazione di molte grandi opere della letteratura mondiale, ma soprattutto, mito, e primo ispiratore, dello stesso Botero. Durante il suo soggiorno romano, durato poco meno di un mese, Botero alloggiava a Testaccio, in un piccolo appartamento di Via Giovanni Branca, messogli a disposizione da suoi amici italiani, e ciò lo abbiamo appreso direttamente dal Sig. Ciccarelli, proprietario dell'opera. Nell'occasione l'artista visse appieno la vivacità dello storico quartiere, frequentandone le piazze, le botteghe, i bar, le trattorie... e le belle donne, una debolezza alla quale Botero non si è mai sottratto. Proprio qui conobbe Emilia Ciccarelli, conduttrice di una tintoria presso la quale l'artista si recava di frequente, donna oltremodo affascinante, vedova e madre di tre figli, alla quale Botero entrò subito in simpatia; i due si frequentarono per parecchi giorni e, con molta probabilità, intrapresero una relazione amorosa piuttosto intensa, tanto che molti li ricordano spesso a passeggio per le vie del quartiere, alle ore più insolite. Fatto sta che proprio in quest'ambito, Botero si avvicinò al calcio romano e romanista: Emilia Ceccarelli apparteneva ad una famiglia di solide radici giallorosse, al papà Settimio, primo padrone della tintoria, spesso venivano portate a lavare alcune maglie della prima squadra di Campo Testaccio, quando la compianta Sora Angelica, moglie di Zi Checco, storico guardiano del campo, non aveva possibilità di lavarle direttamente.

Questa storia di "calcio e popolo", come lui stesso la descriveva, piacque molto a Fernando Botero, tanto che, proprio all'atto di congedarsi dalla capitale, fece dono ad Emilia di questo dipinto, nel quale la raffigurava, in modo immaginifico, proprio nella sua bottega di tintoria alle prese coi suoi tre figli Artemio (proprio il nostro interlocutore, in maglia giallorossa come spesso era nella realtà), Lorenzo, la piccola Settimia e l'inseparabile gatta Mollichella. Proprio Artemio ricorda che ad Emilia, lì per lì, il quadro non piacque molto: "Capirai, mamma era magrissima, a vedesse così... sembrava n'fusto de benzina, nun è che je piaceva tanto... però lo sapeva che lui dipingeva così, eppoi je voleva bene, quindi lo fece incornicià e l'attaccò ar muro, proprio a bottega". Com'è ben visibile, nel quadro sono dipinte, stese ad asciugare, proprio alcune maglie della Roma, simili a quelle dell'epoca di papà Settimio, una delle quali apparteneva alla famiglia Ciccarelli e venne mostrata a Botero dalla stessa Emilia. Immaginiamo che, a differenza di Emilia, gli estimatori di Botero non storceranno davvero il naso davanti ad un opera del genere, esemplare per il periodo e ben collocabile nell'intera produzione dell'artista, tanto più che lo stesso, a distanza di qualche tempo la ripropose, sia pure con alcune lievi variazioni.

Osservando bene il dipinto, possiamo notare nella parte sinistra la presenza di due tagli verticali, elementi che non devono riferirsi assolutamente alle tecniche di Lucio Fontana (perdonateci la boutade), piuttosto ad un simpatico fatto del quale ci riferisce lo stesso Artemio Ciccarelli:

"Un giorno capitò a bottega zio Quinto, un fratello de papà che abbitava a Garbatella, un meccanico delle ferovie, attivista der PCI. E mentre che guardava er quadro, tirò giù du bestemmie che me sà che le sentirono fino a Trastevere... prese er quadro e se rivorse a mamma dicenno: Emila, guarda qui... ma n'te vergogni? Mamma guardò e er quadro e je disse: Sor Qui'... maddeché parlate? Zio aggiunse: Ma che me stai a cojonà? Nun lo vedi che su ste majette ce sta ancora er fascio littorio? (effetivamente era lo stemma delle maglie romaniste del periodo, ndr.) Mamma guardò bene e je fece: Sor Qui'... so le maje della Roma de na vorta, erano quelle... che dovemo fa? Zio Quinto s'enncazzo come poche vorte l'ho visto in vita mia... attacco na pippa che levate: Ma come nun te vergogni! Manco pe la memoria de Settimio... poro fratello. Sta robba la dovresti annisconne, pe rispetto suo... E ricordate che tu padre nun era communista così (alzò un pugno)... era communista così! (alzò entrambi i pugni). Poi prese er quadro e lo spaccò sopra an fero da stiro della tintoria. Robba da ride... Dopo quarche giorno, anche se la tela ormai era tajata, mamma lo fece rincornicià e lo rimise ar posto suo... E' l'unico ricordo della tintoria de mamma che c'ho ancora dentro casa... Dici che lo devo fa restaurà?"

martedì 17 novembre 2015

Il ragazzo senza l'orecchino da pirla

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Siamo certi che gli appassionati dell'Arte Romanista questa volta resteranno sorpresi, o magari avranno un sussulto, perché l'opera che presentiamo travalica l'arte, è un manifesto di insofferenza, un atto di disubbidienza artistica, forte, deciso, senza esitazione alcuna, a dispetto di tutto. Non poteva che essere di un autore radicalmente romanista: Ditmar van der Meer.
Ditmar, trentaseienne olandese, residente in Ceintuurbaan, nel noto quartiere multietnico De Pijp, ad Amsterdam, membro attivo del R.C. Amsterdam (AIRC), appartiene a una famiglia che ha da sempre frequentato l'arte e la pittura in particolare.
Discende nientemeno che da Johannes van der Meer, uno dei più celebrati pittori olandesi, meglio conosciuto col nome di Jan Vermeer, pittore che nella sua breve vita (1632-1675) ha prodotto alcuni tra i dipinti più famosi di ogni epoca, basti pensare a "L'astronomo" o "La merlettaia", gelosamente custoditi al museo del Louvre, o alla celeberrima "Ragazza col turbante" conservata al Mauritshuis de L'Aia, universalmente nota come "Ragazza dall'orecchino di perla", opera che ha dato spunto all'omonimo film sulla vita del Vermeer, candidato a 3 premi Oscar.

Ditmar mostra ben presto la sua abilità artistica vincendo alcuni importanti premi già all'età di 14 anni, frequenta poi l'Accademia Delle Belle Arti di Amsterdam dove si cimenta con le più varie tecniche moderne; nel contempo conosce una giovane studentessa italiana, Carla Brunetti, romana di Torpignattara, con la quale convive ancor oggi. Proprio l'unione con la giovane Carla, anche lei pittrice, approdata per lo studio in Olanda dopo una controversa storia nei centri sociali romani, fa scattare in Ditmar un autentico moto di ribellione artistica, da sempre ossessionato dal giornaliero confronto con il noto progenitore Vermeer. E' proprio attraverso questo turbamento che comincia a produrre, con tecniche sperimentali, opere in assoluto contrasto ai quadri di Vermeer e di molti altri pittori olandesi.

Per parlare del dipinto che presentiamo oggi, "Il ragazzo senza l'orecchino da pirla", abbiamo contattato direttamente Carla Brunetti, compagna di Ditmar; quello che segue è solo un breve (vi assicuriamo, fedele) estratto della lunga conversazione avuta con Carla:

«Dito (è così che lei chiama Ditmar) è sempre stato un ber cacacazzi, pure prima che me conoscesse. Er probblema è che all'accademia tutti je dicevano "er Verme (Vermeer, ndr.) sta cosa nun l'avrebbe mai fatta", "certo sta cazzata, proprio da te che sei er nipote der Verme...", e n'sacco de cose de sto tipo... me pare evidente che uno dopo npò se rompe li cojoni... mettece pure che i compagni de corso erano na massa de fighetti, pieni de sòrdi, che già lo guardavano male solo pe come se chiamava... poi, te dico, tutti tifosi dell'Ajax -  ma na squadra se po' chiamà come n'detersivo? - hanno provato pure a trascinallo allo stadio, ma lui capirai... preferiva annà ar cinema. Poi però semo annati all'Olimpico a vedé la Roma de Spalletti... te dico, lì è stato amore a prima vista, s'è comprato più libri lui sulla Roma...

Vabbè, tu voi sapé der quadro, no? E gnente... na reazione de panza, cell'hai presente? Pe prima cosa ha rimediato na scanzione der quadro der Verme, quello dedicato a qua' trojetta coll'orecchino, poi l'ha mannato a fa stampà su tela... proprio da una de Roma, na certa Irma - lui però dice ch'è n'omo... nun ho voluto approfondì - n'somma, questa je l'ha stampato su tela cor plotter, n'ber lavoro devo dì, sembrava vero. Quanno è tornata la stampa l'ha intelajata e ha cominciato a dipingece sopra coi colori acrilici, coi smalti e artra robba che conosce lui, poi è passato all'invecchiamento... ammazza, forte! Sembrava tutto screpolato come quello vero, Dito quanno ce se mette fa certe cose da paura... comunque, te dico, c'ha messo un par de giorni, mica deppiù...

Tu voi sapé che c'ha voluto rappresentà? Mbè... tutto e er contrario de tutto. Indove c'era la pischella tutta sdurcinata lui c'ha messo un ber negrone - volemo parlà de Gervé? N'hai visto che robba... 'no stambecco, n'omo de na bellezza antica - indove che c'era lo sguardo triste e supplichevole, lui lo fa guardà proprio da n'antra parte, come peddì: "chivvesencula, io parto e la butto dentro"...volemo parlà dei colori? Bianco sporco, giallino, celeste, azzuro... maddeché, lui ha fatto tutto giallorosso... che je vòi dì? Poi l'orecchino... un vezzo, na mignottata, dimocelo su... magari ar Verme j'avrà fruttato pure na chiattella, ma nsomma... Dito l'orecchino nun ce l'ha proprio messo - a parte er fatto che je ricordava Cassano, che lui a Cassano nun lo poteva proprio vedé, je sarebbe passato sopra colla machina... - nsomma, j'ha dipinto er lobo nudo, senza pallette, cerchietti e pirsing de sòrta... Comunque Gervigno come lo metti sta, è bello come n'angelo... pensa che io a Dito j'ho chiesto de dipingelo come n'angelo de van Dyck...»

lunedì 16 novembre 2015

L’Ultima Cena da Checco

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In ogni tempo la pittura ha mostrato un grande interesse per la convivialità, non vi è artista di rilievo che non si sia misurato nel ritrarre un consesso di individui intenti a testimoniare un evento, di qualsivoglia genere. Discorso a sé stante meritano le adunanze in cenacolo, dalle rappresentazioni cristiane a quelle pagane. Questa che qui vediamo è "L’Ultima Cena da Checco" di Philippe de Champaigne, il grande maestro francese, zio di Vincent Candela e padrino di battesimo di Philippe Mexes, noto per la sua devozione ai sacri colori capitolini, che proprio qui mostra con grande varietà di toni, colori vivi, assai gradevoli alla vista. Per quanto ne sappiamo l'opera, un olio su tela di grande formato, 233x158 centimetri, venne commissionata da Emanuele De Cristofaro, presidente del R.C.SS.Apostoli, affiliato all'Unione Tifosi Romanisti, per essere esposta presso i Musei Capitolini, tuttavia essa venne smarrita in occasione consueti sei mesi di festeggiamenti per il terzo scudetto romanista, dopo una lunga serie di esposizioni itineranti ad opera dei soci più attivi. Resta a noi la sola riproduzione fotografica.

Il dipinto mostra lo stesso De Cristofaro al centro della scena nell'atto di spezzare una ciriola con sguardo diretto al cielo, quasi ad evocare l'intenzione di assolvere colui che ha trangugiato l'ultimo limoncello, la cui coppa vuota, si noti, è ancora sul tavolo. I commensali, tutti attorno al soggetto, assumono le posture più varie, c'è l'attento, il finto interessato, lo spergiurante che sembra declamare "me possino cecamme", e chi è intento al rimembrar azioni di giuoco e formazioni dei tempi andati. Sullo sfondo, un drappo scuro crea un clima serio e cupo, un simbolismo atto a creare il contesto del tradimento, vi è infatti in sala colui che destituirà il De Cristofaro e porterà il club in seno alla AIRC. Si noti inoltre che sul tavolo non sono ancora presenti attestati in carta pregiata, ciò sta a significare che il gran maestro di cerimonia dell'UTR non ha ancora posto fine al cerimoniale.

Ubicazione e datazione dell'evento rappresentato restano comunque un mistero. Qualcuno sostiene che la cena si sia tenuta nel cenacolo del Santissimo Capitano, da alcuni chiamato "Checco", con chiaro e deprecabile eccesso di confidenza. Tuttavia, la gran parte degli studiosi del de Champaigne ritiene che il tutto si sia svolto nella sala di in una locanda piuttosto in voga all'epoca: Checco dello Scapicollo. Lo Scapicollo andrebbe inteso come l'antico precipizio ubicato a nord-ovest del fiume Giordano e a sud del fiume Tevere, identificato in tempi più recenti nel Triangolo delle Cecchignolae (def. Smallirons). Per la datazione, unici elementi degni di attenzione sono l'unico affresco murale e il gagliardetto posto in una mano del commensale seduto sullo sgabello ligneo alla destra nel dipinto, tra l'altro raffigurato in modo pregevole. Entrambi gli elementi mostrano il monogramma in tre lettere "ASR", simbolo della compagine capitolina in epoca pre-americana, il che escluderebbe dalla scansione temporale solo poche, recenti, stagioni, ma è anche possibile che il socio non si sia adeguato all'uso del più nuovo stemma. Possiamo in sintesi asserire che gli elementi assunti non risultano esaustivi ai fini di una datazione certa. Resta la bellezza del dipinto, comunque eterna.

domenica 15 novembre 2015

Giacomo e Ignazio sulle rive del Tevere

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La magnificenza dell'opera che presentiamo quest'oggi, del sommo artista francese Nicolas Poussin (noto in Italia anche come Niccolò Pussino), è tale che Storia dell' ‪#‎ArteRomanista‬ si è avvalsa direttamente delle parole nel noto critico Maurice Baldeoussonne, tratte dal trattato "Prenez l'art et de mettre de côté" pubblicata in ben dodici lingue, ancor oggi insuperato compendio di conoscenza pittorica pre-ottocentesca.

«"Jacques Ignace et le Tibre" (Giacomo e Ignazio sulle rive del Tevere), più conosciuto come "Angel James and St. Ignatius in Tower Valley", per effetto dell'ubicazione statunitense (Nebo Museum of Boston, Massachusetts) è un paesaggio di rara maestria, caratterizzato altresì, da una complessa simbologia. Trattasi, a tutti gli effetti, di un'opera di "annunciazione" pagana o, se vogliamo: volgare. L'artista raffigura in modo epico una leggenda popolare secondo la quale, l'Angelo Giacomo rivela a Sant'Ignazio, che di lì a poco, sorgerà un tempio lungo un'ansa del Tevere presso la quale stazionano, mostrando a questi i primi schizzi concettuali dell'opera... (omissis).
Ora, ciò che magnifica la prova d'artista, risiede proprio nell'assoluta precisione posta nella risoluzione geografico-toponimastica dell'apparizione, il ché, vale un'esame a se stante. Posti al centro della scena l'angelo Giacomo e il Santo Ignazio, si noti che essi sovrastano la sponda sinistra del fiume Tevere, osservando il corso d'acqua in direzione del Mare Tirreno, il cui bagliore si nota appena all'orizzonte... (omissis).
Centralmente, subito al di sotto del Colle Portuensis, si notino le vestigia di un insediamento: il "suburbio" Portuense, o Maglianus Antiquis; antico sobborgo, noto per essere stato popolato in antichità, da reietti e malfattori, per lungo tempo al soldo del noto brigante "Libanensis"... (omissis).
Ancor più stupefacente è l'impianto scenico raffigurato attorno ai due protagonisti. I resti dell'edifiico sui quali si adagia il Santo Ignazio risultano essere quelli del "Dulcibus Aquis" o "Officina delle acque sanate", primo esempio di apparato per la depurazione delle acque a cielo aperto di età Romana, con annesse terme, foresterie e persino un galoppatoio destinato a giochi plebei, un complesso di notevole interesse storico... (omissis).
C'è anche chi intravede (ma qui ci avvaliamo del beneficio del dubbio) nel piccolo manufatto posto sopra l'ara marmorea, in basso a destra nella raffigurazione, un modello lapideo del futuro tempio, oggetto dell'annunciazione... (omissis).
Tutti elementi che, secondo il noto cartografo statunitense Meis (Windsor), concorrono all'esatta identificazione del luogo raffigurato, ovvero, la Tower Valley, conosciuta attualmente come: Tordivalle.»

venerdì 13 novembre 2015

L'autopsia

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Dall'era dei dipinti nelle caverne a oggi, l'arte è racconto.
Percorrendo i corridoi di un qualsiasi museo, momenti esaltanti si alterneranno a tragiche vicende e scenari inquietanti. Ad esempio, chiunque si rechi al museo Mauritshuis dell'Aia, nei Paesi Bassi, avrà la possibilità di ammirare uno dei quadri più belli e terrificanti al tempo stesso: la "Lezione di anatomia del dottor Tulp" di Rembrandt (R. Harmenszoon van Rijn), pittore e incisore olandese, vero e proprio eroe nazionale, considerato uno dei più grandi pittori della storia dell'arte europea.
Eppure non tutti sanno che il raffigurato, e famoso, sezionamento del braccio, fu preceduto da altre opere che descrivono pratiche diverse, parimenti orribili, o forse più.
E' il caso di questo piccolo e significativo quadro, scovato da Storia dell'‎Arte Romanista‬, "L'autopsia", dipinto olio su legno, ove la stessa équipe medica, evidentemente cara al Rembrandt, è alle prese con lo svuotamento delle viscere di un cadavere.
Qui la pittura si fa strumento di scienza e conoscenza, ma anche cruda testimonianza di tragici accadimenti.
Potremmo dire che, al tempo, Rembrandt arrivava dove ora arrivano i Nas, Assoconsumatori, Codacons e mass media.

La trasferta di Nino

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La tematica del viaggio nella pittura è un capitolo affascinante che si perde nella notte dei tempi, Gerome, Gauguin, Turner, Rothko... centinaia di artisti, più o meno noti, ci hanno offerto capolavori di inestimabile bellezza.
Questo dell'artista francese Etienne Billet rappresenta senza alcun dubbio uno dei tentativi più riusciti e significativi, e non poteva sfuggire all'attenzione di Storia dell'Arte Romanista‬.
Un momento solenne, sospeso nel tempo; qui l'eternità de...l panorama desertico è posto come sfondo della vicenda umana e terrena. L'etereo e il tangibile divengono inscindibili, si fanno rivelazione.
L'opera, olio su tela di media dimensione, offre cromatismi sorprendenti, le ocre, e le terre in genere, sono sapientemente miscelate. Raggi di luce di un probabile tramonto desertico creano ombre lunghe, l'incombente tempesta di sabbia è lì, sullo sfondo, ma i suoi effetti già velano l'atmosfera. Un divenire cromatico magistralmente risolto.
E la vicenda umana non è inferiore alle attese.
La scena narra la trasferta di Nayif Ahmad Muhammad Abdullah (per gli amici: Nino), iscritto al Roma Club Cacciatori di Asyūṭ, Egitto
(conosciuta in epoca greco-romana come Licopoli "città dei lupi"), scortato dal suo fidato assistente di caccia Amin, mentre incontra un fratello in fede tra le dune desertiche.
Il gesto è eloquente, domanda è risposta che non necessiterebbero di trascrizione... ma in questa rubrica, è un compito che assolviamo con piacere e trasporto.